Perché “Io capitano” è un film che parla di noi
Io capitano, il film di Matteo Garrone a cui abbiamo assistito di recente, è un film che parla di sogni e viaggi, di scelte e di ciò che conta davvero nella vita. Parla di noi, di ragazzi come noi.
Due cugini, 16 anni, una vita normale, una famiglia che li ama, la scuola, gli amici e il telefonino sempre in mano. Una grande passione in comune, la musica, ovviamente RAP, e un grande sogno: diventare cantanti famosi. Ed essere disposti a tutto pur di raggiungerlo.
E così arriva la scelta di prendere in mano le sorti della propria vita, di essere capitani del proprio destino. La scelta cioè di partire, anche trasgredendo ai divieti di una madre e agli avvertimenti di una comunità intera, pur di affrontare il viaggio verso i loro sogni.
E’ la storia di ogni adolescente quando inizia a proiettarsi nel futuro. Per questo ci siamo subito immedesimati, anche se il film è girato con attori non professionisti e interamente in lingua Wolof. Sì, perché c’è un’unica grande differenza tra noi e quei ragazzi.
Seydou e Moussa, i protagonisti del film, sono nati nel posto sbagliato, in Senegal. E anche se hanno una vita dignitosa, se non si trovano in condizioni di miseria o in mezzo a guerre o soffrono la fame, dovranno affrontare un’odissea, pur di avere così tanto successo che “anche i bianchi ci chiederanno un autografo”. A noi invece per inseguire un sogno (seppur illusorio e frutto di immagini distorte proposte dai social) basta partecipare ai casting di un talent o comprare un biglietto aereo.
Un viaggio che è ostacolato non tanto dalle insidie del deserto o del mare, il Mare Nostrum (nostro poi di chi?), ma dalla crudeltà e indifferenza di mostri come mafiosi, poliziotti corrotti, torturatori di professione, mercanti di uomini, schiavisti e guardia costiera sorda ad ogni richiesta di aiuto.
Ma alla fine Seydou, messo suo malgrado alla guida di un barcone carico di persone, avvista terra e grida ‘Io capitano!’, con l’orgoglio di aver portato tutti in salvo verso una vita migliore. E’ il grido di chi ha raggiunto una meta ben più importante dei sogni ingenui che aveva quando è partito, di chi è diventato adulto, ha superato l’abisso mantenendo intatta la propria umanità, maturando una nuova visione del mondo e la consapevolezza di ciò che conta davvero, anzi, di chi conta davvero.
Il film porta tutti noi, che fin dall’inizio ci siamo rivisti in Seydou e suo cugino, a misurarci con l’orrore di una realtà totalmente diversa dalla nostra, in cui la vita diventa solo una lotta per la sopravvivenza.
E quindi alla fine del viaggio, insieme ai due ragazzi proviamo lo stesso senso di solidarietà e umanità, capiamo davvero cosa significa aver diritto ad aspirare ad una vita migliore, e ci portiamo dietro una semplice grande domanda.
Per quale motivo si deve rinunciare ai propri sogni solo perché si nasce nella parte sbagliata del mondo?